Descrivere la felicità è un’operazione estremamente complessa, perché non esiste una definizione univoca e perché a seconda delle culture e dei tempi storici questa ha assunto accezioni e significati anche molto diversi.
In linea generale, potremmo dire che la felicità è un’emozione sfuggevole, fugace, passeggera, che è simile (ma più potente) ad altri sentimenti quali contentezza, gioia, letizia e beatitudine.
In certi casi, soprattutto a livello politico ed economico, si traduce oggi con benessere, mentre in altri l’idea si riferisce ad una condizione di serenità duratura, data dall’aver finalmente trovato la soluzione perfetta dopo intricate vicende e tormenti, come espresso chiaramente nella celebre espressione finale delle favole “e vissero felici e contenti”.
Per gli antichi romani Felicità era la divinità protettrice della fecondità, della ricchezza e del successo.
Il latino “felicitas” del resto appartiene allo stesso campo semantico della fertilità.
L’inglese “happiness” invece fino a pochi secoli fa esprimeva la condizione di essere baciati dalla grazie di Dio, presupponendo che si potesse essere appagati non per meriti propri, ma perché tutto andava per il verso giusto grazie a fortuna, coincidenze e aiuti esterni.
Negli ultimi secoli, soprattutto da quando la Dichiarazione di Indipendenza Americana ha posto la felicità come uno dei diritti di ogni cittadino al pari della vita e della libertà, questa emozione (e la sua ricerca) ha assunto un ruolo ancora più importante nel dibattito filosofico, scientifico, politico ed economico, con la nostra società occidentale costantemente impegnata a misurare, gestire e raggiungere la felicità, considerando (a torto o a ragione) non solo un diritto, ma anche un obbligo, l’essere felici.
